L’andar per affreschi in Friuli, a cercare le radici migliori della nostra storia e della nostra cultura, non può prescindere dal percorrere la Via Maestra della Pittura e soffermarsi a Baseglia, poco a nord di Spilimbergo.
Il nome deriva certamente dal greco βασιλική, ovvero basilica, interpretabile nel senso di luogo dei signori, quegli Spilimbergo mecenati che qui risiedevano d’estate, così si potrebbe dire trattarsi di un paese signorile. Vi si trova infatti una chiesa emblematica per vari motivi, ma soprattutto per il più completo e affascinante ciclo di affreschi realizzati in due riprese tra il 1544 e il 1550, che è l’opera più matura di Pomponio Amalteo, allora da pochi anni erede della bottega del grande G. A. de Sacchis, detto il Pordenone.
Il titolo della chiesa è Santa Croce, e la storia declinata con felice invenzione e maestria di disegno già manierista è il racconto per immagini sia della Passione e Resurrezione di Cristo, sia del ritrovamento della Santa Croce. Già l’architettura è interessante, per lo spazio seppur ridotto che con un doppio arco scandisce il ‘quadro’ e il ‘coro’ nell’abside.
Il quadro è con volte a vela, il coro con catino su di un semicilindro, mentre l’aula, unica, resta divisa da balaustra in pietra e dalle grandi figure dell’Annunciazione sopra l’archivolto, curiosamente con Maria a sinistra e Gabriele a destra. Grandi sono anche le figure femminili dolci e sapienti di sante nel sottarco e della Fede a destra e Carità a sinistra sui piedritti, tanto che ci si chiede poi dove sia la Speranza, ma questa, per arrivare a vederla, bisogna prima seguire tutto il racconto, fin dietro l’altare settecentesco in marmo. Ricche cornici a grottesche su fondo come a mosaico d’oro dividono sulle pareti le scene disposte su due registri. Campeggia a sinistra in alto la salita al calvario di Cristo, con il rebbo della croce in linea con una lancia da torneo.
In basso la grande scena piena di particolari emblematici, narrativi e di concitazione espressionista, del Cristo inchiodato alla croce. Più avanti nel tamburo Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo preparano la deposizione del corpo di Cristo, anche dipinto dopo centralmente in modo mantegnesco, quale tragico esito della Passione, in grembo a Maria e pianto dalle donne. Tutte le scene mostrano figure su più piani e prospettive di paesaggi aperti in profondità, tali da renderle ostensivamente presenti nel mondo di chi le guarda.
A destra Elena regina madre di Costantino sembra dirigere la caccia al tesoro, per il ritrovamento di quella croce che, sul fondo posta al centro facciata di una chiesa del borgo, sollevata sopra una colonna spezzata, è divenuta miracolosa e guaritrice in mezzo alla comunità attonita.
Sulla parete destra, in alto, Gesù è trascinato da torvi armigeri davanti a Pilato, sui gradini di un portico rinascimentale a colonne che lascia vedere un’altra esemplare prospettiva di scorcio urbano, con sacerdoti a guardare da una scalinata e ancora una chiesa e un campanile in fondo. In basso vi è la storia del re Eraclio che porta a spalla la croce riconquistata, umilmente e non trionfalmente per poter rientrare a Gerusalemme, come raccontato nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, ma anche come necessario a ognuno per entrare nella Gerusalemme celeste.
Nelle 4 vele del soffitto diviso a costoloni di stucco intagliato, la storia, ovvero la Tradizione della religione cattolica, è come certificata dai primi 4 dottori della Chiesa: Gregorio Magno, l’aquileiese san Girolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, tra evangelisti, profeti e sibille. Tutto ciò comunque porta alla festa: nel catino dell’abside vi è il grande trionfo del Cristo risorto che tiene una mano salda sul mondo, tra Maria e Giovanni attoniti, attorniato da angeli e da un’orchestra di angeli (tra i quali curiosamente uno è mancino, il gioco è scoprirlo). Ecco allora dov’è l’indicazione della terza virtù, la Speranza, che la musica e la festa pasquale evocano, forse proprio nascosta lassù!
Buona Pasqua.
Autore: Alessandro Serena megazine@megmarket.it